I prodotti tipici: tra mito, bugie e realtà – intervista ad Alberto Grandi

Alessandra Zecchinon

“Il Parmigiano Reggiano più simile a quello creato tanti secoli fa dalla sapienza dei monaci emiliani? È il Parmesan prodotto nel Wisconsin, in USA. E quella meraviglia dolce e succosa … che si chiama pomodoro di Pachino? È un ibrido prodotto in laboratorio da una multinazionale israeliana delle sementi”.
 
Queste le frasi d’esordio della presentazione del libro “Denominazione di Origine Inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani” scritto da Alberto Grandi professore dell’Università di Parma.
 
Il libro non mette in dubbio la qualità e la bontà dei prodotti tipici italiani. Ma svela il ruolo del marketing nello strepitoso successo dell’industria gastronomica italiana. Incuriositi da questa “voce fuori dal coro”, abbiamo intervistato il Docente di Storia delle imprese e Storia dell’alimentazione, autore di numerosi saggi e monografie per capire il suo punto di vista.

L’intervista a Alberto Grandi sui prodotti tipici e il marketing

L’Italia è un paese rinomato per l’eccellenza dei suoi prodotti enogastronomici che vanta più DOC, IGP, STG… in Europa. Ci può raccontare come è nata l’idea un po’ contro corrente di scrivere il libro “Denominazione di Origine Inventata”?
L’idea è nata da una certa insoddisfazione che covavo da tempo. Rispetto a quanto era stato pubblicato a livello accademico sulla storia della cucina italiana. E compreso quello che io stesso avevo pubblicato.
 
Non mi piaceva questa tendenza a glorificare un passato, che in realtà è stato molto meno epico e interessante di quanto normalmente si dica. Gli italiani, fino a sessant’anni fa, hanno mangiato poco e male. Quelli che se lo potevano permettere, per mangiare bene, imitavano la cucina francese. Non esaltavano di certo le tipicità italiane, che, del resto, non esistevano, se non in misura molto limitata.

Lei afferma che i prodotti tipici italiani sono buonissimi, ma che la loro storia è in gran parte inventata. Perché si è scelto di fare riferimento al passato e chi ha inventato le storie dei prodotti tipici?
Il riferimento al passato, che non è solo dei prodotti tipici, ma spesso anche dei prodotti industriali, credo abbia soprattutto una funzione rassicurante nei confronti del consumatore. Se una cosa è antica si ritiene che sia più sana per definizione.
 
Queste invenzioni possono avere molte origini diverse. Spesso sono gli stessi consorzi, che per completare i dossier che chiede l’UE, finiscono per attestare leggende prive di una reale documentazione storica. In altri casi sono le singole aziende che per pure ragioni di marketing si inventano origini antiche per i loro prodotti.

Ci fa qualche esempio di storia inventata o di prodotti cambiati radicalmente rispetto al passato?
Gli esempi possono essere molti e non vorrei fare torto a nessuno. Sicuramente uno dei casi più elaborati è quello del lardo di Colonnata, le cui origini vengono addirittura fatte risalire all’antichità. Poi si arriva al Rinascimento, con Michelangelo come testimonial. Per non parlare del cioccolato di Modica, per il quale vengono addirittura scomodati gli Aztechi.
 
Per quanto riguarda i prodotti cambiati, mi verrebbe da dire che tutti, chi più chi meno, hanno subito delle trasformazioni negli ultimi decenni, per adeguarsi ai gusti dei consumatori o alle nuove normative sanitarie e commerciali. Di certo, uno dei casi più clamorosi è quello del Parmigiano-Reggiano, ma anche del Grana Padano, che negli ultimi cinquant’anni è completamente cambiato nella forma e nel gusto. 

Solitamente i prodotti agroalimentari vengono creati da piccoli produttori artigianali e poi il successo ne decreta la produzione industriale. Per l’Italia le cose stanno veramente così?
In alcuni casi sì.  Penso al caso dell’aceto balsamico, ma in altri è successo l’esatto contrario. Penso al Panettone, che nasce industriale per poi trasformarsi in artigianale in anni recenti.
 
Ma il caso che io ritengo più interessante è quello del pomodoro di Pachino, che è il frutto di ricerche genetiche molto raffinate e costose svolte in Israele e che oggi è un pezzo importante dell’economia della provincia di Siracusa. È chiaro che i coltivatori siciliani non avrebbero mai avuto le risorse economiche per realizzare questo prodotto, si tratta quindi di un felice connubio tra grande industria genetica multinazionale e piccola agricoltura specializzata.

Le bugie del marketing

I disciplinari dei diversi consorzi in qualche modo cristallizzano un prodotto, lo rendono identificabile e affidabile per il consumatore. Questa cristallizzazione, secondo lei, quali ripercussioni potrebbe avere?
Intendiamoci, i disciplinari sono tendenzialmente delle forzature perché pretendono di codificare metodi di produzione che per loro natura si basano su tradizioni orali e quindi con ampi margini di aleatorietà.
 Ad esempio, io vengo da Mantova, città famosa per i tortelli di zucca, bene, credo di non aver mai assaggiato due tortelli uguali: mia nonna, mia mamma, mia suocera, ma anche i tanti ristoratori locali propongono ricette molto diverse tra di loro, quale sarebbe quella originale, da inserire in un eventuale disciplinare?

Detto questo, credo che, almeno nel breve periodo, i disciplinari rappresentino un innalzamento medio della qualità di questi prodotti.
Ma il rischio di cristallizzazione e quindi di bloccare l’innovazione è evidente, infatti assistiamo sempre più spesso a produttori di vini, formaggi e salumi che escono dai consorzi e abbandonano le regole dei disciplinari per poter fare innovazione.
 
Come si pone per rapporto a movimenti come Slow Food che promuovono le produzioni di nicchia?
Nel mercato c’è spazio per tutti e quindi anche per le produzioni di nicchia, quello che non mi piace di movimenti come Slow Food è la pretesa di contrapporre un’agricoltura buona, che sarebbe quella tradizionale, a una cattiva, che sarebbe quella tecnologicamente più avanzata.
 
Ma spesso si contrappone anche un artigianato, portatore di valori positivi a un’industria che conduce inevitabilmente a disastri ambientali e sociali. Non è così, in tutti i settori lo sviluppo tecnologico e la ricerca sono fondamentali, anche in agricoltura dove la genetica e la chimica permettono di risparmiare energia, acqua e trattamenti, incrementando la produttività dei terreni, la sicurezza e la qualità degli alimenti.
 
Se poi qualcuno vuole continuare ad utilizzare tecniche antiche e riesce a vendere i suoi prodotti a un prezzo più alto, buon per lui. Ma questo non può essere il futuro di tutta l’agricoltura italiana, semmai è il futuro di quel singolo produttore.
 
Alberto Grandi: Denominazione di origine inventata libroQuesto fenomeno della denominazione Inventata è un fenomeno tipicamente italiano o lo si può riscontrare anche all’estero?
In Italia abbiamo sicuramente esagerato con l’uso strumentale della storia, ma occorre ricordare che il sistema delle denominazioni è nato in Francia e anche da quelle parti non scherzano in fatto di invenzioni.
 
Del resto, il collegamento di un prodotto con un determinato territorio in qualche modo costringe a cercare radici storiche anche quando queste non esistono o quantomeno non esistono più.

Nel libro faccio anche l’esempio della cioccolata svizzera, la cui produzione è oggi praticamente assente all’interno della Confederazione, ma che nella pubblicità e nel packaging continua a fare riferimento alle vette innevate, ai pascoli e a tutto ciò che può ricordare quel paese. Come ho già detto, la storia rassicura e affascina; se è inventata forse è ancora meglio.
 
Per saperne di più: DENOMINAZIONE DI ORIGINE INVENTATA di Alberto Grandi
 
 
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